Maurizio Lupi

 Cari vescovi, sbagliate. Sicuri che la difesa della famiglia passi dal fatto che 400 mila persone non lavorino una o due domeniche al mese?
Settembre 14, 2018

Cari vescovi, sbagliate. Sicuri che la difesa della famiglia passi dal fatto che 400 mila persone non lavorino una o due domeniche al mese?

Cari vescovi, sbagliate.

Sicuri che la difesa della famiglia passi dal fatto che 400 mila persone non lavorino una o due domeniche al mese?

 
Al direttore – Sono adulto, sono cattolico, ma non sono un “cattolico adulto”. Epperò, solitamente obbediente per convinzione ed educazione, mi sento di eccepire alla posizione assunta dai vescovi italiani sull’apertura domenicale degli esercizi commerciali.
La disgregazione delle famiglie, il meritato tempo del riposo, lo spazio per una qualità diversa nei rapporti umani e il no a una cultura basata solo sui consumi sono tutti argomenti seri e di peso sui quali non posso non concordare. Ma secondo me prendono di mira il bersaglio sbagliato. Accostando in modo un po’ irriverente il “chi non lavora neppure mangi” di san Paolo al “chi non lavora non fa l’amore” di Celentano, due frasi che icasticamente dicono della relazione tra lavoro e famiglia, ricordo che in Italia di domenica lavorano già quasi cinque milioni di persone (4.700.000 secondo lo studio della Cgia di Mestre). 3.400.000 sono lavoratori dipendenti, 1.300.000 sono lavoratori autonomi.
E’ interessante notare che mentre i lavoratori festivi sono uno su cinque tra i dipendenti, tra gli autonomi sono uno su quattro. Non sto a fare l’elenco (lungo, molto lungo) dei vari lavoratori interessati, ma è interessante notare che oltre a quelli impiegati nei servizi cosiddetti necessari e/o legati al turismo, vi siano quelli di settori di assoluto intrattenimento come gli eventi sportivi, la cultura (musei, cinema, teatri, mostre), l’informazione e financo sacrestani e guardie svizzere. Di questo esercito di “forzati” del lavoro fanno parte anche i dipendenti dei centri commerciali, ipermercati e supermercati (ma non solo, tecnicamente la definizione è Dmo, Distribuzione moderna organizzata, circa 60 mila punti vendita) che “possono” tenere aperto di domenica in base alla liberalizzazione degli orari stabilita dal governo Monti.
Sono 450 mila su 23.200.000 persone con un’occupazione in Italia (1’1,9 per cento). Non sono tutte impiegate di domenica, fanno i turni per servire i 19 milioni di italiani (più qualche immigrato) che fanno la spesa di domenica, giorno secondo solo al sabato per fatturato di vendite, il 10 per cento del totale. La chiusura domenicale secondo Federdistribuzione costerebbe il posto a 40/50 mila dipendenti.
Monsignor Fabiano Longoni della Cei, direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro, dice che sono numeri non verificabili e che altre associazioni di categoria spiegano che sarebbero compensati dalla ripresa dei piccoli esercizi commerciali costretti in questi anni a chiudere dalla concorrenza della grande distribuzione. Non so. Ma è quel tipo di verifiche che preferirei non fare.
I consumi reali delle famiglie in questi anni di crisi sono diminuiti dell’8 per cento (circa 81 miliardi, ultimo dato disponibile 2013) nonostante l’oggettivo contributo del commercio domenicale. Quei 50 mila che rischiano il posto oggi lavorano, portano a casa uno stipendio, sostengono una famiglia. Per verificare la previsione dei piccoli commercianti intanto gli togliamo tutto questo. Ne vale la pena? I 400 mila che resteranno saranno certo felici di non lavorare qualche domenica, i 50 mila esclusi avranno tutte le domeniche libere, e anche gli altri giorni della settimana.
Quanto inciderà la disoccupazione sulla qualità dei loro rapporti umani? Siamo sicuri che la battaglia per la difesa della famiglia passi dal fatto che 400 mila persone su 60 milioni di italiani non dovranno più fare i turni festivi (cioè lavorare una o due domeniche al mese?). Non sono un idolatra del lavoro, del super-lavoro, né misconosco la sacrosanta esigenza del riposo, ma ritengo che un politico debba tenere in considerazione il contesto globale e armonioso di una società e la gerarchia dei fattori che concorrono a determinarlo.
Nella situazione attuale la priorità è creare lavoro, perché la sua mancanza ferisce profondamente la dignità di una persona (come mi disse la figlia di un minatore sardo da decenni sussidiato dallo stato: “Non ho mai visto mio padre alzarsi la mattina per andare lavorare”) e incide sulla sua famiglia, non solo economicamente ma anche sulla speranza e sul-la prospettiva che dà ai figli, molto di più di un turno di domenica.
Non facciamone una battaglia di princìpi.
Dice monsignor Longoni che della chiusura domenicale non vuole farne una battaglia ideologica.
Concordo, non facciamone una battaglia di principi, sarebbe una battaglia astratta, con tutte le eccezioni che la furbizia italiana saprà trovare perché, ammoniva Flaiano: “Non bisogna appoggiarsi troppo ai principi, perché poi si piegano” (su 8 mila comuni italiani come potremo decidere quale ha un’attrazione turistica e quale no? Basti il dato che il luogo più frequentato d’Italia dopo il Colosseo è l’outlet di Serravalle con 5 milioni di visitatori). L’origine della crisi della famiglia, del calo dei matrimoni, del deserto demografico è ben altra (sarebbe anche interessante avere i dati delle donne che fanno la spesa di domenica perché nei restanti giorni della settimana lavorano per contribuire al reddito familiare) e la politica può fare ben altro- dal fisco alla libertà di educazione, dal welfare agli incentivi per le giovani coppie, dagli aiuti per la casa a quelli per i neonati, dai servizi sociali per gli anziani al sostegno delle realtà sociali che aiutano le famiglie – per favorire modelli di convivenza sociale che pongano i nuclei familiari al loro centro.
Parafrasando il celebre passo evangelico -non quello che da fuori entra nella bocca rende impuro l’uomo ma ciò che proviene dal suo cuore- mi sento di dire che la crisi della famiglia è tutta interna alla famiglia, alle ragioni e ai motivi per cui due giovani pensano che valga (o non valga) la pena di sposarsi e di fare (o non fare) dei figli. E non è un problema nato nel 2011 con Mario Monti. Nel 1962, a supermercati chiusi, Rita Pavone si lamentava: “Perché perché la domenica mi lasci sempre sola per andare a vedere la partita di pallone?”.
E’ più sfasciafamiglie lo stadio o l’outlet?
 

Lettera al Direttore de Il Foglio del 14/09/2018

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