Maurizio Lupi

 I 150 anni della casa degli italiani
Novembre 21, 2015

I 150 anni della casa degli italiani

Cari amici, mi trovo a Barcellona per i 150 anni della Casa degli italiani di Barcellona in qualità di presidente del gruppo di amicizia interparlamentare Italia-Spagna. Questo è il testo del discorso che ho tenuto ieri sera:
“Sono molto onorato di essere qui, ringrazio il presidente della Casa degli italiani di Barcellona Giuseppe Meli per l’invito e saluto in modo particolare il console generale Stefano Nicoletti.
Voi festeggiate oggi i 150 anni della casa degli italiani, una celebrazione è un fatto importante, un anniversario, come un compleanno, come un rito, scandisce il tempo e ci aiuta a recuperane il significato. Antoine de Saint Exupery ne “Il piccolo principe” dice che il rito “E’ quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore” e rende certi giorni “meravigliosi”.
Ora, questa ricorrenza ci aiuta a coltivare la memoria, molto bello il vostro libro di testimonianze fotografiche e non solo fotografiche, perché è la memoria, la ricchezza del passato che ci viene tramandato che costituisce la personalità individuale, culturale e di popolo con cui viviamo il presente e affrontiamo le sfide che preparano il futuro. Per questo mi è piaciuto molto che una della attività principali della Casa degli italiani di Barcellona sia stata e sia il sostegno della scuola, dell’attività educativa. In Italia, e di questo voi italiani all’estero dovreste essere orgogliosi, abbiamo da poco approvato una riforma che si chiama “Buona Scuola”, che ha finalmente dato agli studenti un corpo docente stabile, eliminando il precariato degli insegnanti, e inserito criteri di merito e di concorrenza e di rapporto con il mondo del lavoro, senza snaturare il fine educativo, anche nella scuola. Tutto questo perché il ruolo della scuola è collaborare al compito educativo che è primariamente della famiglia, e l’educazione è introduzione alla realtà, trasmettere ai figli la capacità di stare nella realtà con i problemi che via via essa presenta. Paradossalmente questo concerto di educazione, e questo ruolo della scuola, lo si capisce meglio e con più urgenza se si è una comunità che vive in un Paese straniero, pur se in un paese bellissimo, accogliente e con grande affinità culturali con la nostra Italia quale è la Spagna.
Ma permettetemi di aggiungere una cosa, che io credo decisiva – decisiva sempre ma emersa in tutta la sua necessità soprattutto in questi giorni dopo i fatti tremendi di Parigi: la realtà non è affermata sino in fondo se non è affermato il suo significato (chiunque fra voi fa l’imprenditore, e credo siano tanti, sa bene che cosa voglio dire). Ci vuole un perché per affrontare la realtà tutti i giorni, anche e soprattutto quando diventa difficile e dolorosa e quando la coscienza della sua precarietà si manifesta in tutta la sua evidenza. Abbiamo una civiltà ricca, una grande gioia di vivere, una grande capacità di costruire, di fare impresa, di fare belle le nostre città, di rinnovarle come è stata rinnovata Barcellona… Ma tutto questo ci può essere tolto in un istante, mentre siamo seduti a un bar, allo stadio, mentre stiamo ballando in un locale.
Non voglio rattristare una festa, come è e come è giusto che sia questa giornata, ma ricordare a tutti noi, a me per primo il motivo per cui facciamo festa. Quando diciamo che i terroristi non cambieranno il nostro stile di vita, perché non sia una frase vuota, dobbiamo sapere che il nostro stile di vita ha delle radici culturali he nascono dalla risposta alla domanda su che senso ha vivere, per che cosa vale la pena spendere la vita. È questa l’emergenza educativa che tutto l’Occidente vive, perché è impressionante sapere che gli attentatori di Parigi non erano stranieri, erano – come ha detto il presidente Hollande – francesi che hanno ucciso altri francesi, ragazzi educati nelle nostre scuole, che hanno studiato la nostra storia, letto la nostra letteratura, vestiti come noi, che non hanno però ritenuto questa vita, questo stile di vita affascinante, attraente, questi valori un motivo per cui vivere e non morire. 
Diceva Osama bin Laden: noi vinceremo perché amiamo la morte più di quanto loro amino la vita. È il motivo per cui invece perderanno. Perché tutta la nostra storia, penso anche alla Spagna, tutta l’esperienza di continua rinascita di cui l’Europa è stata protagonista anche nell’ultimo terribile secolo dopo la carneficina di due guerre mondiali, padre Kolbe ad Auschwitz e il ritorno alla libertà di interi popoli dopo settant’anni di oppressione e di morte civile, tutto questo testimonia di fronte al mondo che la vera vittoria è quella della vita. Allora noi non fuggiremo di fronte alla minaccia del terrore solo se riprenderemo coscienza viva di questo nostro grande tesoro che nessun terrorista assassino può strapparci dal cuore. Non fuggire vuol dire affrontarli con fermezza, con coraggio, con tutti gli strumenti a nostra disposizione, compresa la forza di chi vuole difendere ciò che ha di più caro, ma senza cadere nella loro logica di odio, perché la nostra storia, la nostra ragione ci dicono che l’ideale non è l’homo homini lupus ma una convivenza umana in cui ci siano spazio e dignità per ogni popolo, cultura e religione. Allora resta una grave domanda su questa nostra volontà, noi europei, noi che siamo nell’immaginario di chi fugge da guerre e povertà il posto ideale di approdo, noi eredi del grande incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma, fra religione ebraica, razionalità greca e cristianesimo, crediamo ancora nella novità di esperienza umana che la nostra fede porta nella vita di chiunque la incontri? La nostra fede di oggi, non il nostro pur glorioso passato. O comunque quell’esperienza di civiltà, di convivenza, di bellezza oggi possibile perché non taglia i ponti con queste radici. È nella risposta a questa domanda radicale la possibilità di una resistenza reale a chi ci odia. 
Ho letto l’intervista a uno degli scampati del l’eccidio del teatro Bataclan, un ragazzo che si chiama Sebastian; a un certo punto l’intervistatore gli chiede:
Cosa avete imparato Sebastian?
S: che la vita è appesa a un filo, e che c’è bisogno di apprezzarla, e che non c’era niente di più serio che il fatto che eravamo ancora vivi.
I: e cosa avete imparato da loro, gli aggressori?
S: non molto… se non che avevano bisogno di un ideale che il mondo occidentale in cui vivevano, dato che erano chiaramente francesi, si esprimevano in francese, il mondo in cui vivevano non ne offriva uno, e hanno trovato un ideale mortifero, di vendetta e di odio e di terrore. E ad certo punto hanno voluto salvare la loro vita prendendoci in ostaggio, ed è stata la nostra salvezza, il fatto che ci tenessero alla loro vita. Ma hanno realizzato troppo tardi che la vita era importante. Ed io oggi posso rendermi conto che ogni istante che passo con i miei parenti, è un bonus, una benedizione. I semplici momenti di una vita fanno parte delle cose più belle che possiamo avere, e di questo non ce ne rendiamo conto se non quando ci capitano delle sorti di elettrochoc come quello che ho vissuto. Ho l’impressione di essere nato una seconda volta e voglio fare in modo di gustare questa nuova vita che mi è stata offerta.
Io penso che l’Italia abbia un grande compito nel testimoniare che si può nascere una seconda volta, che si può sempre rinascere, ricominciare, ripartire. Un compito che le deriva dalla sua storia, dalla sua cultura e dalla sua capacità di creare e trasmettere bellezza. Voi italiani all’estero siete come i testimoni in prima fila di questa storia, di questa cultura, di questa bellezza che non è solo il mostro passato ma è il nostro presente. Grazie.”

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